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sabato 5 aprile 2014

Buon compleanno, Carrie

Oggi è una data da segnare con il circoletto rosso sul calendario. Il 5 aprile 1974, infatti, vide la luce per la prima volta Carrie, l’opera di un insegnante 26enne che arrotondava lavorando in una lavanderia. Quell’uomo era Stephen King. Un nome una garanzia, inutile dilungarsi troppo. La sua carriera decollò proprio da quell’opera che, per usare le parole di Ramsey Campbell, “ha stravolto il genere horror come una bomba”.
Il libro sta vivendo un periodo di ennesima giovinezza grazie al film, uscito l’anno scorso, con Chloë Grace Moretz nei panni che furono di Sissy Spacek nel 1976, ma in realtà non ha mai smesso di vendere e di destare interesse. Per questo, visto che oggi è in qualche modo il suo compleanno, andiamo a rileggere cosa ha raccontato lo stesso King sulla sua genesi nel saggio On writing.
“Mentre frequentava l'università, mio fratello Dave lavorava d'estate come portiere alla Brunswick High School, la sua alma mater. Un'estate, per qualche tempo, ci lavorai anch'io. ... Dovevo avere diciannove o vent'anni. Fui messo in coppia con un certo Harry, che indossava una tuta verde, aveva una grossa catena portachiavi, e camminava zoppicando. .... Un giorno dovevamo togliere le macchie di ruggine dalle pareti delle docce delle ragazze. Contemplai lo spogliatoio con l'interesse di un giovane islamico che per qualche ragione si ritrovi nell'alloggio riservato alle donne. Era uguale allo spogliatoio dei maschi, ma anche completamente diverso. Non c'erano orinali, naturalmente, mentre, fissate alle pareti piastrellate, c'erano due cassette di metallo in più, senza scritte e delle dimensioni sbagliate perché potessero essere per le salviette di carta. Chiesi che cosa contenessero. «Tappapassere», rispose Harry. «Per quei certi giorni del mese.»
Notai anche che i box delle docce, a differenza di quelli dello spogliatoio maschile, erano dotati di tende di plastica rosa. Loro potevano lavarsi in intimità. .... L'episodio mi riaffiorò alla mente un giorno mentre lavoravo in lavanderia e cominciai a visualizzare la scena d'apertura di un racconto: ragazze che fanno la doccia in uno spogliatoio dove non ci sono tende di plastica rosa e non c'è privacy. E una di loro comincia in quel momento il suo ciclo mestruale. Solo che non sa di che cosa si tratta e le altre ragazze, disgustate, orripilate, divertite, cominciano a bombardarla di assorbenti. ... La ragazza comincia a strillare. Tutto quel sangue! Crede di essere sul punto di morire e che tutte le altre ragazze la stanno prendendo in giro mentre lei sta spirando dissanguata... reagisce... contrattacca... ma come? Qualche anno prima, sulla rivista Life avevo letto un articolo in cui si ipotizzava che almeno alcuni casi di fenomeni ritenuti di poltergeist potessero invece dipendere dalla telecinesi, la capacità cioè di spostare oggetti con la sola forza del pensiero. C'erano elementi che sembravano indicare la possibile presenza di questa capacità nei giovani, spiegava l'articolo, specialmente ragazze nella prima adolescenza, intorno all'epoca del loro primo...
Bang! Due fatti separati, la crudeltà adolescenziale e la telecinesi, erano entrati in contatto e mi avevano dato un'idea. Non per questo abbandonai la mia postazione alla Washex n° 2, né mi misi a correre per la lavanderia agitando le braccia e gridando: «Eureka!» Avevo avuto molte altre idee altrettanto buone e alcune anche migliori. .... La storia rimase per un po' al calduccio, a incubare in quel limbo che non è coscienza, ma non è nemmeno totale inconsapevolezza. Prima che mi mettessi a tavolino una sera per fare un tentativo, avevo iniziato la mia carriera di insegnante.
Compilai tre pagine a spaziatura singola, poi le accartocciai disgustato e le gettai via. Avevo quattro problemi con ciò che avevo scritto. Il primo e meno importante era il fatto che la storia non mi toccava sul piano emotivo. Il secondo e un po' più importante era il fatto che non mi piaceva molto la protagonista. Carrie White era ottusa e passiva, una vittima predestinata. ... Il terzo problema, più importante ancora, era il disagio in cui mi sentivo nei confronti dell'ambientazione e di un cast tutto femminile. Ero atterrato sul Pianeta Donna e una sola puntata nello spogliatoio femminile nella Brunswick High di qualche anno prima non mi bastava per navigarci con disinvoltura. A me scrivere riesce sempre al meglio quando è un fatto intimo, sensuale come pelle sulla pelle. Con Carrie avevo la sensazione di aver addosso una muta di gomma che non potevo sfilarmi. Il quarto e più importante di tutti fu rendermi conto che la storia non avrebbe potuto funzionare se non fosse stata adeguatamente lunga.. Non mi ci vedevo a sprecare due settimane, forse persino un mese, per scrivere una novella che non mi piaceva e che non sarei stato in grado di vendere. Così la buttai via.
La sera dopo, tornato a casa da scuola, trovai Tabby con le pagine che avevo scartato. Le aveva viste mentre svuotava il mio cestino, aveva ripulito i cartocci dalla cenere delle sigarette, li aveva lisciati e letti. Voleva che andassi avanti, disse. Voleva sapere come andava a finire. Le risposi che non sapevo un bel ... niente di studentesse di liceo. Lei mi disse che mi avrebbe dato una mano. Aveva abbassato il mento e sorrideva in quel modo così accattivante. «Questa l'hai centrata», disse. «Lo dico sul serio.»"
E così, grazie alla lungimiranza della signora Tabitha Jane Spruce in King, scrittrice e fotografa appassionata di opere filantropiche, Carrie la pazza ha concluso il suo cammino ed è arrivata fino a noi pur non essendo simpatica al suo autore. Per fortuna…

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